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Il Problema dell’occupazione è un difetto di miopia della politica economica

Enrico Furia (7 novembre 1996)

 

Il problema dell’occupazione, oltre che essere un gravissimo problema sociale, è soprattutto un vistoso difetto di miopia della politica economica.
Il lavoro, al pari delle risorse naturali, dell’imprenditoria, del capitale finanziario, e della tecnologia è un fattore di produzione, la cui caratteristica principale è quella di trasferire il reddito alla domanda nella maniera più diffusa possibile, quindi più facilmente spendibile in una varietà quasi completa di beni e servizi.
L’economia, definita come la relazione che esiste tra produzione e consumo, è un insieme matematico i cui elementi essenziali sono la produzione ed il consumo.
L’insieme si annulla se manca uno solo dei due elementi: non ha senso, infatti, produrre se nessuno consuma, così come non è possibile consumare se nessuno produce.
A loro volta, produzione e consumo sono due sottoinsieme, i cui elementi costitutivi sono tutti essenziali all’esistenza degli insiemi.
Gli elementi costitutivi della produzione, come sono già stati sopra identificati, sono: Gli elementi costitutivi della domanda, o del consumo, sono: Se uno di questi elementi è nullo, è nulla la domanda stessa. Infatti, se qualcuno non ha bisogno di niente (bisogno nullo), non domanda niente; se uno non ha nemmeno un soldo (reddito nullo), non può chiedere niente (se non a credito); se qualcuno non riesce ad esprimere nessuna scelta (gusto nullo), non può decidere che cosa chiedere.
Sia la produzione che il consumo sono tassati dai governi di tutto il mondo per raccogliere tasse ed imposte con le quali finanziarsi.
La tassa principale che incide sul consumo è l’I.V.A., mentre le tasse che incidono sulla produzione sono molteplici, e generalmente si caratterizzano proprio perché si applicano ai diversi fattori produttivi: Orbene, mentre le tasse di concessione incidono fino al massimo del 30%, quelle sul reddito non superano il 42%, il tasso di interesse non può superare il 15%, e la royalty non supera mediamente il 20% del prezzo di vendita del prodotto, le tasse sul lavoro (inclusi gli oneri sociali obbligatori) arrivano fino al 300% dello stipendio netto percepito dal lavoratore.
Infatti, gli esperti in matria sanno benissimo che, per dare 100 di stipendio netto ad un dipendente, l’impresa ne spende ben 300. Pertanto, il fisco si comporta come un partner occulto del lavoratore che, senza partecipare alla produzione, guadagna il doppio di chi effettivamente lavora.
Questo significa che, quando una qualunque impresa vuole fare nuovi investimenti, ha tutto l’interesse ad usare tecnologia e capitali finanziari, piuttosto che forza lavoro, giacchè i primi costano molto meno di quest’ultimo.
L’attuale governo ha giustamente visto come un fenomeno abnorme l’ingente imposizione fiscale che pesa sulla produzione, ed ha deciso di ridurre le principali imposte sul reddito.
Ora, anche se questa mossa è giusta, essa non ha alcun effetto sulla creazione di nuova occupazione, perché, anche se l’incremento di reddito delle imprese venisse interamente reinvestito, i nuovi investimenti si baserebbero sull’impiego di tecnologia e di capitali finanziari, che costano molto meno del lavoro.
Inoltre, questa manovra può aiutare solo le imprese che lavorano per il profitto, ma mettono sempre più in difficoltà quelle imprese che lavorano nel “nonprofit”, e che possono utilizzare o volontari (che, senza reddito, non possono essere consumatori) o personale dipendente, il cui lavoro è tassato in maniera decisamente illogica.
“Lavoro nero” ed “Economia sommersa” sono conseguenza di questa aberrazione, piuttosto che delll’ingordigia di evitare di pagare le tasse sul reddito.
Abbiamo già scritto molto su questo argomento, ma non ci stancheremo mai di ripetere la nostra esperienza di qualche anno fa vissuta in provincia di Caserta, dove abbiamo visto di persona come una piccola impresa di lavorazione di manufatti per conto terzi, per poter competere con le manifatture asiatiche era costretta ad accettare costi unitari di produzione di jeans a 7 dollari l’uno.
Con questi prezzi il costo del lavoro non può essere certamente quello corrente. Allora le imprese artigiane (vero nucleo dell’economia nazionale) sono costrette a lavorare in nero, oppure a lasciare le commesse agli asiatici, o ad altri paesi emergenti, quindi a chiudere.
L’inefficienza e limmoralità dello Stato, che porta a tassazioni esose proprio sulle parti più deboli (i lavoratori) è alla base di una condizione di politica economica miope, che porta le imprese ad adottare misure di sempre maggiore automazione o di lavorazione esterna, riducendo sempre più l’occupazione, quindi il reddito spendibile dei consumatori di massa, con il rischioche l’economia si avvolga su se stessa in una spirale di inflazione da costi dovuti a scarsità di domanda che non permette di produrre con economie di scala.
Fortunatamente moltissime organizzazioni sociali lavorano esclusivamente sul volontariato, altrimenti nessuno potrebbe permettersi di svolgere le proprie attività, se dovesse sostenere costi di retribuzione del personale resi impossibili da una fiscalità impossibile.
Ma anche questa condizione dimostra evidente miopia di politica economica, in quanto, o i volontari hanno già un reddito garantito (da una pensione, da uno stipendio fisso, da contribuzioni varie, da carità, ecc.), la qual cosa non genera nuova ricchezza, ma ridistribuisce solo quella già esistente, oppure gli operatori del sociale non possono essere considerati consumatori, perché non hanno alcun reddito da spendere.
Ebbene, se dobbiamo considerare la politica economica come un’attività svolta dallo Stato per facilitare la produzione di reddito diffuso, pertanto di nuova ricchezza, allora dobbiamo dire che questa è completamente fuori da ogni grazia di Dio. Se, invece, la politica economica è un insulso pretesto per garantire reddito facile ad uno Stato immorale ed alle sue inefficienze, allora possiamo farne tranquillamente a meno.

Enrico Furia

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