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L’INELUTTABILITÀ DELL’ECONOMIA SOMMERSA

Enrico Furia (4 settembre 1997)

 

Indice

Le buone intenzioni.
Una fattispecie concreta.
Il perché della realtà economica.
Politica, Tecnologia e Ordinamento Giuridico.
Un primo tentativo di soluzione.

Le buone intenzioni.

Tutti i Governi che si succedono nell’amministrazione della Repubblica Italiana si propongono come obiettivo prioritario l’eliminazione dell’economia sommersa, cioè di quelle attività economiche che vengono svolte al di fuori dell’inposizione fiscale.
L’economia sommersa porta conseguenze nefaste per lo Stato, a causa dell’evasione e dell’elusione fiscale, dove con il termine “evasione” si intende il completo inadempimento contributivo, mentre con il termine “elusione” s intende un non appagamento, una delusione nelle aspettative dello Stato di acquisire contributi fiscali.
L’economia sommersa non differisce in nulla dall’economia emersa, tranne che nel suo margine contributivo (profitto), o nella volontà di adempiere ai propri doveri nei confronti dello Stato.
Condannando sin d’ora questo secondo aspetto (del resto comune anche all’economia emersa), affrontiamo da un punto di vista esclusivamente giuridico l’aspetto fiscale dell’economia sommersa relativa a quelle attività, che sono caratterizzate da evasione fiscale.
Per discutere questo concetto, lo scrivente si avvarrà anche di esperienze reali vissute nella sua qualità di ricercatore ed analista.

Una fattispecie concreta.

Nel 1996 fui invitato da alcuni Organizzazioni Industriali ad analizzare la situazione economica delle rispettive Province e ad esprimere un giudizio in proposito. Nella Provincia di Caserta si rilevò un caso emblematico, che può descrivere in modo appropriato la situazione generale del Paese.
Si trattava di un’ azienda operante nel settore manifatturiero dell’abbigliamento, a gestione familiare, con circa 50 operai, ed un fatturato annuo di qualche miliardo. La lavorazione era a façon per conto di grandi distributori internazionali.
Nella prima visita venni accompagnato da amici comuni, per cui non mi accorsi subito di quanto effettivamente avvenisse. Nelle visite successive, mi resi conto che c’era una vera e propria procedura concordata per l’ingresso in fabbrica, dato che la stessa era ben mimetizzata e le porte erano sempre ben chiuse. Quando chiedo spiegazioni al titolare (un giovane ventenne) sul perché non tenessero le porte aperte, costui mi rispose che non potevano farlo, altrimenti prima sarebbero passati i vigili per fargli la multa, poi sarebbe passata la Guardia di Finanza per fargli la multa, poi sarebbe passato l’Ufficio del Lavoro per fargli la multa, poi sarebbe passato l’Ufficio Iva per fargli la multa, poi sarebbe passata L’INPS per fargli la multa poi sarebbe passata l’Esattoria Comunale per fargli la multa, poi sarebbe passato l’Ufficio Imposte per fargli la multa, ……… e poi sarebbe passata la Camorra per imporgli il pizzo...
Quando chiesi di dare un’occhiata al bilancio, il titolare mi rispose che non aveva bisogno di farlo, perché portavano tutto a mente.
Quando chiesi di dare un’occhiata ai conti bancari, rispose che loro non avevano banche: tutte le transazioni avvenivano per contanti. La principale moneta di scambio era la lira italiana, ma il dollaro americano ed il marco tedesco venivano quotati al 20% in più del cambio ufficiale.
Venivano ugualmente accettate Rupie Indiane, Dollari Qwetiani non più in circolazione (ma con la possibilità di cambio ventennale), e tutte quelle valute che potevano avere un mercato.
Il trasferimento di contante era affidato ad organizzazioni private, che garantivano anche sulla autenticità delle banconote e sulla quantità circolante.
Un giorno una delle dipendenti fece ricorso all’Uffico Provinciale del Lavoro di Caserta, e questi emise una sanzione amministrativa di venti milioni a carico della ditta. La dipendente fu soggetta a ritorsioni dalle sue colleghe che, a causa della denuncia, temevano di perdere il loro posto di lavoro per la chiusura della fabbrica. Il giorno successivo il titolare della ditta chiama in mia presenza la dirigente dell’Ufficio del Lavoro di Caserta, esprimendosi più o meno in questo modo: “Voi mi avete fatto la multa, ma io non ve la pago. Se mi fate ingiunzione di pagamento, io chiudo e riapre papà; se fate chiudere papà, riapre mammà; se fate chiudere mammà, riapre mia sorella …….”, e via di seguito, fino a quando la controparte non riattaccò il telefono per sfinimento.
Un giorno arriva una telefonata dalla Germania: volevano piazzare un ordine di un milione di jeans a settemila lire l’uno. Il titolare rispose che non aveva nessuna possibilità di produrre a quei costi: loro potevano prendere ordini fino a dodicimila lire al paio. Quell’ordine fu trasferito in Cina.
Nella situazione dell’impresa casertana si trovano migliaia di ditte in Campania ed in tutta Italia. In Abruzzo i borsettifici che producevano per conto proprio, o sono riusciti a crearsi un marchio (pochissimi) o si sono trasformati in faconisti sommersi. Nelle Marche la stessa situazione tocca ai produttori di scarpe del Fermano e ai produttori di elettronica dell’Anconetano. In Veneto sono diventate sommerse molte attività che negli anni ’70 e ’80 venivano definite come solidissime.
E’ dappertutto estremamente sommerso il mondo delle piccole costruzioni civili ed industriali. E’ sommersa buona parte del turismo. E’ sommersa buona parte delle attività professionali.
Chiediamo venia al cortese lettore se nell’esposizione dei fatti abbiamo usato un linguaggio poco forbito e piuttosto popolare. Lo abbiamo fatto perchè dovevamo riportare il più fedelmente possibile la realtà che abbiamo osservato. La gente comune non si ciba di paroloni, né di teorie generali e astratte che non riescono a calarsi in nessun caso concreto. La gente sa che per sopravvivere ha bisogno di reddito, sia pur minimo. La gente sa che tra un lavoro mal pagato e la disoccupazione, il primo caso è certamente il più augurabile.

Il perché della realtà economica.

Perché parte dell’economia è forzatamente sommersa? Per il fatto che l’imposizione fiscale è un costo (troppo spesso fisso), che incide direttamente sul prezzo di vendita dei prodotti.
Per poter dare uno stipendio netto di 60 al dipendente, l’impresa manufatturiera ne spende 150, mentre l’impresa di costruzioni ne spende ben 180.
Nel sistema economico competitivo o si riesce a tenere il prezzo e la qualità richiesta dal mercato, o non si entra neppure nel mercato. L’impresa casertana sopradescritta non ha nessuna possibilità di ritornare in chiaro, perché, se così facesse, i suoi costi aumenterebbero di tanto da portarli fuori mercato. O loro sono capaci di tenere quel prezzo e quella qualità, o gli ordini se ne vanno in Asia.
Troppi sedicenti esperti hanno trovato nella Globalizzazione il capro espiatorio della politica nazionale fatta col paraocchi E’ nostro personale convincimento che la Globalizzazione economica è al momento l’unico strumento per fornire di reddito popolazioni che altrimenti sarebbero costrette al completo abbandono. Non è colpa dei Cinesi né di qualsiasi altro popolo se i nostri operatori economici sono costretti a lavorare in nero. Non è colpa dei Rumeni se qualche migliaio di imprese italiane (soprattutto venete) ha aperto colà fabbriche e centri di produzione. Non è colpa del Regno Unito se professionisti italiani preferiscono trasferire colà le loro attività, considerando che l’incidenza fiscale britannica è, in alcuni casi, quasi la metà di quella italiana.
Un imprenditore che apre un’attività in Italia, appena inizia si carica di almeno cinque tasse (IVA, ICIAP, ILOR, RSU, IRPEF o IRPEG, Imposta Camerale) che rappresentano tutte dei costi fissi (col redditometro si pagano anche se non si produce o vende niente).

Politica, Tecnologia e Ordinamento Giuridico.

Oggi non è la politica a fare l’economia, ma piuttosto la tecnologia.
La Globalizzazione è ineluttabile, perché non è figlia della politica (che quindi non può fare nulla per governarla), bensì della tecnologia e della logica eonomica (Rapporto costi/benefici). E siccome la Globalizzazione economica mette in concorrenza l’imprenditore nazionale con qualsiasi altro imprenditore nel mondo, è chiaro che questi debba seguire le leggi dettate dal mercato, non quelle dettate dalla politica. Del resto, la logica di business è completamente opposta a quella della politica. Il business è basato sul contratto, sull’accordo delle parti nel creare reciproci profitti, quindi nuova ricchezza, mentre la logica politica è basata sulla redistribuzione della ricchezza, e sull’imposizione del potere, che nella teoria dei giochi è definito “gioco a somma zero” (chiunque, per acquisire potere, deve sottarlo ad altri).
La logica di business è basata sull’efficienza e sull’utilità, mentre la logica politica è basata sull’imposizione fiscale (redistribuzione di ricchezza). Questo modo di fare ha potuto funzionare fino a quando abbiamo avuto delle economie chiuse, basate su sistemi governati da ordinamenti giuridici autonomi e sovrani. Con l’avvento della Globalizzazione economica l’ordinamento giuridico nazionale non ha più la capacità di essere sovrano, giacché il mercato è libero di orientarsi verso il sistema più favorevole. Per potersi adeguare a questa regola l’imprenditore deve produrre a costi competitivi, considerando che nel sistema competitivo non gli è dato di imporre il suo prezzo di vendita.
Il sistema fiscale che non tiene conto di queste considerazioni può solo distruggere l’impresa ed il lavoro (malpagato o benpagato che sia) che essa genera.
La Costituzione della Repubblica Italiana è molto chiara per quanto riguarda la tutela del lavoratore (l’imprenditore è il lavoratore per definizione in economia). All’Art. 4 essa stabilisce: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Orbene, pretendere che i lavori sommersi ritornino in chiaro, come abbiamo avuto modo di verificare in moltissimi casi, significa distruggerli. Così facendo, lo Stato renderebbe moltissimi cittadini inabili al lavoro (inabilità a trovare altre occupazioni), e privi dei mezzi necessari per vivere, incorrendo, quindi, nel dettato costituzionale dell’Art. 38 che stabilisce: “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale.” In questa situazione sarebbe curioso vedere lo Stato da una parte pretendere imposizioni fiscali, e dall’altro dover pagare agli stessi somme certamente superiori a quelle pretese, comunque con una distruzione enorme di ricchezza reale.
Del resto, la Costituzione è ancorpiù chiara quando all’Art. 53 stabilisce il dettato dell’etica contributiva: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
A nostro sommesso avviso il sistema fiscale è nato obsoleto, ed è ormai in contrasto sia con gli interessi privati che con molti interessi collettivi della società.
Non è insignificante il fatto che questo problema si ponga a livello di giustizia tributaria, giacchè essa rappresenta assieme alla legislazione ed all’amministrazione uno dei tre poteri sovrani dello Stato. Lo scrivente non è un giudice tributario, ma solo un umile docente ed un povero ex imprenditore caduto, a suo tempo, nelle maglie di una logica incomprensibile e fors’anche perversa. L’aver ottenuto accoglienza presso la Tribuna Finanziaria con queste semplici argomentazioni è fonte di enorme soddisfazione, che ci incoraggia ad approfondire sempre di più l’argomento.

Un primo tentativo di soluzione.

Quindi, cosa si può fare per riportare l’economia sommersa nei ranghi dello Stato? Cambiare radicalmente la logica dello Stato. Con l’avvento di tecnologie sempre più raffinate, così come l’imprenditore entra in concorrenza con tutti gli altri imprenditori del mondo, lo Stato entra in concorrenza con tutti gli altri Stati del mondo nel fornire servizi più efficienti e meno costosi alle imprese. L’efficienza (la differenza tra costi e benefici) che si chiede all’imprenditore, oggi viene richiesta anche agli Stati. Per aumentare l’efficienza bisogna ridurre al minimo i costi ed aumentare al massimo i benefici. Per fare questo lo Stato deve ridurre al minimo il prelievo fiscale (costo) ed aumentare al massimo i benefici (utilità) che imprese e cittadini possono avere dallo Stato. In caso di Stato inefficiente, non solo le commesse si spostano in Stati più efficienti, ma le stesse imprese tendono a trasferirsi.
E’ impensabile, a nostro sommesso avviso, opporsi a questa semplicissima regola di logica economica, così come è impensabile opporsi alle regole semplicissime dei fenomeni fisici di natura, perché entrambi i tipi rispondono a ineluttabili regole di natura. Qualsiasi resistenza ad un fenomeno fisico può avere efficacia per uno, dieci, tanti anni; primo o poi si arriva alla resa dei conti. Qualsiasi resistenza alla logica dell’efficienza porta, prima o poi, al tracollo dello Stato. In economia “efficienza” è concetto analogo a “profitto”, vale a dire alla differenza che esiste tra l’utilità (capacità di soddisfazione del bisogno) che un prodotto genera ed i costi che esso comporta. L’economia definisce il beneficio (utilità) come la condizione “reale o presunta” che soddisfi un bisogno, per cui qualsiasi beneficio può essere reale o apparente, presente o futuro, tangibile o intangibile, fisico o psicologico. La differenza tra costo e beneficio è chiamata “profitto”. E’ inutile maledire il concetto di profitto, confondendolo con quello di “denaro” o di “ingordigia”, giacchè il primo rappresenta solo uno strumento di scambio, il secondo solo una degenerazione umana.
In ogni contratto ogni parte ha un suo profitto, una sua utilità. Nella logica giuridica quando un contratto manca del suo corrispettivo (beneficio), o quando manca del suo impegno (costo) è nullo. Inoltre, un contratto che sia manifestamente mancante di profitto (beneficio maggiore del costo) è annullabile per eccessiva onerosità in tutti i principali ordinamenti giuridici. Nell’ideale contratto sociale che il cittadino stipula con lo Stato, deve valere lo stesso pricipio etico che vale nel contratto privato, giacché la figura giuridica del contratto è universale. Nella scienza giuridica (Cfr. Unidroit) il contratto di diritto privato è da considerare un teorema (validità dimostrata), non più una teoria (validità accettata da molti). Fino a quando la sovranità illimitata dello Stato nazionale ha avuto l’ultima parola in fatto di legislazione, si è potuto affermare tutto ed il contrario di tutto. Oggi il concetto stesso di sovranità illimitata è difficile da identificare, per cui, se lo Stato nazionale non s e ne rende conto, fa soprattutto un danno a se stesso.
Tutta l’economia sommersa non basata sull’ingordigia non potrà mai emergere proprio per una ragione di logica: la mancanza di profitto. Dal momento che il mercato conorrenziale non permette di aumentare artificiosamente l’utilità di un prodotto, per avere profitto bisogna diminuire i costi.
In ogni caso contrario quel lavoro è invendibile, quindi inutile.
In conclusione, a nostro sommesso avviso, riteniamo che, alla luce della condizione corrente, molte norme fiscali siano da ritenere probabilmente incostituzionali in molti ordinamenti giuridici.

     Enrico Furia

     Gnosys
     
info@worldbusinesslaw.net

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